HuffPost Italia “C’è un odio che cova, temo il ritorno alla normalità”. Intervista a Walter Siti Nicola Mirenzi HuffPost Italia10
Si è fatto un discorso: “Hai 73 anni. Sei vecchio. Certo, devi fare tutto quello che ti dicono per non prendere il coronavirus. Per non morire. Però, se dovesse accadere – perché può accadere – considera che quello che dovevi dire più o meno l’hai detto. Quello che dovevi scrivere, bene o male, l’hai scritto. Te ne puoi andare anche senza maledire troppo la sorte”. Walter Siti è uno dei più importanti scrittori e critici letterari italiani. Vive a Milano, nel centro del contagio, in auto-isolamento da giorni. Dice: “Quello che mi preoccupa di più è il sentimento che sta montando nella mente delle persone. Ho paura che quando finirà l’emergenza il rancore, la rabbia, il risentimento, che in questo momento lievitano in silenzio, sottotraccia, esplodano e si riversino contro gli attuali comandanti in capo. È un attimo innescare la dinamica del capro espiatorio. Dire: ‘È tutta colpa vostra se c’è stata una strage’. Oppure: ‘È colpa vostra se ora abbiamo le pezze al culo’. ‘È colpa vostra se non possiamo più andare a lavorare in fabbrica’. Non è detto che accada. Però, se accade, gli scontri a cui assisteremo, la rottura dell’ordine pubblico che vedremo, potrebbe farci pensare agli autunni caldi della nostra storia come dei momenti di relativa calma e serenità”.
Già ora lo stato d’eccezione ha ridotto le nostre libertà. Ovviamente, per proteggerci. E temporaneamente. Ma è un dato che il tabù della società liberale è stato infranto: “Anche la domanda che in una situazione normale è proibita – dice Siti – oggi si ascolta serenamente nel dibattito pubblico: la dittatura decide meglio della democrazia? Quando, meno di un anno fa, Matteo Salvini invocò i pieni poteri, scandalizzò tutti. E giustamente. Oggi, sono molti a dire che servono i pieni poteri per gestire l’emergenza, che non si può concepire l’idea che il capo indichi una direzione e un generale vada dall’altra parte. Non si scandalizza più nessuno. La retorica è: ‘Siamo in guerra’. E in guerra comanda uno solo. La democrazia è sospesa. Ma quello che mi preoccupa davvero è il momento in cui torneremo alla normalità. Per il lavoro che ho fatto sul mio romanzo, Il contagio, ho molti contatti tra i borgatari romani. Parecchi sono di estrema destra. Il sentimento che sta passando è qualcosa tipo: ‘Ora lasciamo stare, ma segniamoci bene i nomi dei traditori, perché poi li andremo a prendere uno per uno’. Pian piano, l’odio sta montando nella testa delle persone. Questo mi preoccupa”.
Tutto nasce dalla nostra illusione più grande, l’idea di aver addomesticato la natura, un tema a cui Siti dedica un intero capitolo del suo ultimo libro, “La natura è innocente. Due vite quasi vere” (Rizzoli).
È un trauma quello che viviamo?
Ci eravamo convinti che la tecnologia sarebbe stata in grado di padroneggiare completamente la natura. Ci siamo sentiti vincitori e abbiamo preso la natura sottogamba. La Singularity University, nella quale insegnano alcune delle menti più brillanti di questo secolo, si era data tra gli obiettivi anche quello di sconfiggere la morte. L’arroganza degli uomini si è spinta sino a credere all’immortalità. Oggi, invece, la natura ci dimostra quanto se ne frega di noi e dei nostri discorsi. Quanto è vasta la nostra impotenza.
Perché lei dice che la natura è innocente?
Perché la natura non è responsabile di ciò che fa. Ogni tanto si scrolla di dosso gli uomini e li stermina sbadatamente. Passa per essere colpevole. Diciamo: “La montagna assassina” quando qualche alpinista cade in un crepaccio. In questi giorni, ho sentito dire in televisione: “Ah, la natura matrigna”. Capitava anche a Giacomo Leopardi di sbagliare. Perché considerare la natura matrigna significa presupporre che la natura possa essere anche madre. Dunque, buona, accogliente, disponibile. Invece, la natura se ne frega semplicemente di noi, dei nostri legami di parentela, delle costruzioni culturali che noi facciamo intorno a essa. È sovranamente indifferente. Un virus passa dagli animali agli uomini e il mondo si deve fermare. Non c’è un piano, una ragione, un’intenzione. È così e basta.
Eppure, non facciamo altro che parlare di cose naturali, bio.
Quando, nelle società occidentali contemporanee, si dice che qualcosa è ‘naturale’ si intende che è indiscutibile, primario, ovvio, semplice. Consideriamo naturale quello che abbiamo sempre fatto e crediamo che sia un nostro diritto, appunto, naturale continuare a farlo. È un abito culturale. Una consuetudine conservatrice. Non ha niente a che fare con la vera natura. Per questo facciamo così fatica a rinunciare al nostro stile di vita, in questi giorni in cui siamo obbligati a rimanere a casa.
Che conseguenze politiche avrà, secondo lei, questa situazione?
Credo che il discorso sovranista e nazionalista si rafforzerà molto. L’espressione ‘prima gli italiani’, che nel mondo di prima era condannatissima, è una frase che ora non scandalizza più nessuno. Chi potrebbe obiettare alla scelta di mettere al primo posto i malati italiani, rispetto ai malati di qualsiasi altra parte del mondo? Se mi avanzano mille respiratori e uno stato straniero me ne chiede cento, io li tengo in magazzino, perché tra poco mi potrebbero servire per curare i miei cittadini. È il modo in cui hanno ragionato tutti gli Stati. La reazione nazionalista è un dato di fatto.
Può esistere un altro tipo di solidarietà, ora?
Questo non lo so. Io osservo che le categorie più fragili (i senzatetto, i carcerati, i migranti) sono dimenticati senza troppo scalpore, nonostante le altamente proclamate intenzioni di solidarietà e il meritorio lavoro dei volontari. Tanto che mi viene da chiedere: che la sinistra sia una postura per gente in salute?
Perché dovrebbe?
Perché è abbastanza facile occuparsi degli ultimi e degli emarginati quando stai bene. Quando ti fermi a parlare con i ragazzi di colore agli angoli della strada, però poi te ne torni nel tuo bel appartamento nel centro di Milano, dove tutto è tranquillo e non corri nessun rischio. Oggi, però, che temi per la tua vita, ed esci con la mascherina per andare in farmacia, all’angolo della strada non vedi più nessuno, e se lo vedi allunghi il passo e vai via.
Dunque, lei risponde sì: la sinistra è una postura?
Non del tutto. Il punto interrogativo è legato al fatto che se in questo momento la sinistra è veramente brava a mettere in discussione i termini delle questioni che c’erano prima, problemi come l’internazionalismo, la globalizzazione, può non essere una posa, anzi.
Lei che cosa ha ridiscusso?
Io ho riflettuto sulla parola Dio. Vedo che c’è gente che prega sui balconi. Al Grande Fratello Vip hanno recitato il Padre Nostro. C’è un gran desiderio di pregare. La preghiera non è una preghiera neutra: è rivolta al Dio cattolico. Ma se uno non non ci crede cosa fa? Si astiene dalla preghiera comune? Può pensare – come io penso – che i valori di solidarietà possono nascere anche al di fuori della morale cattolica? Oppure tutta l’Italia deve riconoscersi per forza in quest’unico credo?
C’è stata però anche una reazione di religione civile: i tricolori appesi al balcone, l’inno nazionale.
Torniamo però al nazionalismo, di cui parlavamo prima. Nessuno ha esposto la bandiera europea, oppure quella dell’Onu.
Bisogna per forza essere nazionalisti per apprezzare la bandiera italiana?
Non necessariamente.
Lei l’ha apprezzata?
Per me che faccio lo scrittore, l’Italia è soprattutto la lingua italiana. Però, in questo momento, con il Paese colpito dal virus, vedere sventolare il tricolore un po’ mi commuove. Dimostra che non non andiamo ognuno per conto proprio, che almeno ci riconosciamo in una comunità
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